Da un po’ di tempo non mi vedo bene. Quello che riflette il mio specchio, non è quello che vorrei vedere. È cambiato qualcosa rispetto a qualche mese fa? Non molto, per la verità. Sostanzialmente, penso di essere sempre la stessa; non rispetto a qualche anno fa, naturalmente, ma rispetto ai tempi più recenti. Quel disagio e quell’insoddisfazione non hanno motivo di esserci. Eppure qualcosa non va. La mia reazione più immediata, che è forse la stessa di molte donne, è quella di uscire a comprarmi qualcosa di nuovo, che mi faccia stare bene: un vestito, una borsa, un paio di scarpe. Come se la bellezza fosse qualcosa che puoi mettere in una scatola e comprare.
Non capita anche a voi? Non ci sentiamo mai “in dovere” di essere in ordine: truccate, eleganti e in forma fisica, al punto che, se non lo siamo, ci sentiamo in colpa per non aver fatto i compiti (niente palestra, niente manicure…)?
Leggendo le pagine di Specchio delle mie brame di Maura Gancitano (Einaudi, 2022) ho capito che queste sensazioni hanno un’origine storica e culturale ben definita.
La bellezza come impegno sociale
L’impegno sociale all’essere belle (o quantomeno a puntare ad un ideale standardizzato di bellezza) ci accompagna ormai da qualche secolo, per la precisione dall’avvento dell’industrializzazione e della grande distribuzione. Il diffondersi dell’immagine del corpo femminile nelle riviste e nei cataloghi illustrati ha favorito la creazione di un canone cui noi donne dobbiamo adeguarci. Se vuoi vivere felice nel tuo spazio sociale, devi adeguarti alle regole. Il mondo contemporaneo con la sua pubblicità e i social media ci ha spinto ancora più avanti in questo percorso. Il corpo delle donne è diventato un oggetto da riprodurre, da ammirare o da criticare: altro dalla persona che lo abita.
L’auto-oggettivazione
Ho sempre sostenuto che le scarpe con il tacco alto rappresentano uno strumento di coercizione: a meno che tu non sia nata con i tacchi alti, quando le porti devi concentrarti sui tuoi passi (prestate attenzione alle vostre amiche, se non vi fidate delle vostre sensazioni personali). Questo sottrae una parte della vostra concentrazione mentale che potrebbe/dovrebbe essere dedicata ad altro: ad una presentazione di lavoro, ad un lieto evento di famiglia o a tutto quello che vi piace. L’attenzione su come devi apparire, ti toglie le energie che ti servono per essere al meglio. Gancitano lo definisce come il processo di “auto-oggettivazione”:
Vivere in una cultura che oggettivizza sessualmente il corpo femminile porta le donne a fare altrettanto, a percepirsi allo stesso modo, a interiorizzare la prospettiva di un osservatore esterno come visione primaria del proprio sé fisico, cioè a passare dall’oggettivazione all’auto-oggettivazione. Tale processo le spinge di conseguenza al monitoraggio abituale del corpo (o sorveglianza), alla vergogna e disistima di sé, a stati ansiosi, a emozioni negative legate all’aspetto, nonché a rinunciare a opportunità lavorative e personali importanti, quindi a esperienze significative.
Se parte delle nostre risorse cognitive è impegnata nel controllo del nostro aspetto, le nostre prestazioni sono inferiori. In altre parole, il continuo monitoraggio del nostro corpo
riempie e intossica i pensieri quotidiani e le risorse intellettuali ed emotive che potrebbero essere destinate alla propria crescita personale e professionale.
E quindi: che fare?
Secondo Gancitano, la consapevolezza non ci consente, comunque, di uscire dalla logica di condizionamento. Da sole, non possiamo farcela. Se, però, cogliamo il significato della bellezza come relazione, come esperienza dell’altro e dell’ignoto, allora forse possiamo aprirci ad un cammino di liberazione. La ricerca della bellezza è esperienza di vita e di relazioni ed è la spinta ad uscire dall’isolamento del proprio io.
La bellezza è ciò che accade quando riusciamo a sentirci nel flusso.